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Simbolismo & Film

 

Cacciatore di teste di  Costa-Gavras

(per chi non l'avesse visto : questo commento può contenere elementi chiave e il finale del film)

 

La trasposizione italiana del titolo del film (Le couperet = La mannaia) è quanto mai azzeccata.

Cacciatore di teste è chi cerca, valuta e recluta professionisti, generalmente ad alto livello, spesso “rubandoli” da un impresa per “rivenderli” a un’altra. Che la “preda” stia lavorando è una nota di merito che mette automaticamente in secondo piano chi è rimasto tagliato fuori.

Originariamente era il rude solitario cacciatore di taglie del Far West che assicurava alla giustizia, indifferente ad ogni altra questione relativa, i ricercati per incassarne il premio. Ovvero per il proprio personale vantaggio.

 

 

Bruno Davert, brillante dirigente che dopo un’ultradecennale carriera viene licenziato con altri 600 per “sfoltimento e delocalizzazione” a salvaguardia degli interessi degli azionisti, è uno tagliato fuori che non riesce a trovare soluzioni.  

Paradossalmente, pur avendo energie e ingegno, non è capace di reinventarsi altrimenti. La sua preoccupazione non è tanto cercare un lavoro ma mantenere a tutti i costi il suo ruolo, peraltro privilegiato, con cui si identifica talmente che, senza, si sente privato della propria identità. Essendo sostituibile non ha valore individuale, è perso e non può riconoscere il valore individuale degli altri (da cui la rimozione dei sentimenti), perché non appartiene più ad alcuna tribù (coi colleghi eravamo come una tribù … contavamo uno sull’altro. Una volta licenziato è morta la tribù .. Ciascuno per se e nessun dio per tutti). Il licenziamento lo mette di fronte all’assenza di corpo sociale reale.

 

La ricerca di una posizione, con le medesime caratteristiche, si trasforma in una cinica guerra personale. Il nostro eroe diventa, quindi, una sorta di cacciatore di teste “originario”.

La sua ribellione, il suo evidente anticonformismo, in realtà, non sono che estremo individualismo conforme, comunque, alle regole di mercato.

Bruno passa, indifferente come uno zombie, in mezzo ai consueti paradigmi sociali (notiziari, conversazioni, pubblicità, eventi, ..), a cui è talmente assuefatto da percepirli solo se lo toccano soggettivamente. Non è privo di coscienza ne di critica, ma cinicamente la allontana per una visione primaria soggettiva.

I sentimenti nei confronti della famiglia sono tribali, ma in senso formale. Al di fuori di essa non esistono o sfumano immediatamente davanti a quanto si è prefisso.

 

Egli fa suoi fino in fondo modalità e strumenti della società imprenditoriale, adattandoli ai propri obiettivi, materializzandone l’iniquità (“Il crimine è l’unica industria in pieno sviluppo” dice il poliziotto e lui sarcasticamente esclama “Chissà perché?”) che, dunque, coerentemente alla realtà di un mondo senza etica ne solidarietà, resta impunita.

Come cacciatore riesce a raggiungere il traguardo prestabilito, ma in quanto preda “senza tribù” è consapevole di essere vulnerabile, perché la caccia è sempre aperta, senza distinzioni, e istintivamente all’erta riconosce il suo cacciatore (la donna che replica il suo iter).

 

Non si conosce bene il protagonista al di fuori di questa parentesi svantaggiosa, ma d’altronde la sua personalità non riguarda il film, poiché egli rappresenta qui un facsimile della società che lo ha prodotto e di cui ha assimilato i parametri, anche nel ribellarsi, che fanno dell’individualismo una conquista egocentrica e non sociale.

 

 

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