L’UOMO DEL TRENO
di Patrice Leconte
(per chi non l'avesse visto : questo commento può contenere elementi chiave e il finale del film)
L’atmosfera vespertina
iniziale, che si ripresenta a più riprese, induce un senso di attesa.
Qualcosa accadrà. Un’attesa inquieta e misteriosa, come il personaggio che
il treno porta nella cittadina quasi disabitata, di noia.
Città e treno sono in
contrasto come i due protagonisti che ben rappresentano. Sicurezza che
protegge ma anche limita, contro una libertà di movimento che non consente
di mettere radici.
Qualcosa dunque è già
stato consumato, la parzialità dei protagonisti che ha permesso a una sola
parte di loro di svilupparsi. Ora, ciò che è stato tenuto sotto chiave
spalanca la porta per farsi entrare dall’esterno attraverso l’altro. La
parte rimasta in ombra sente il desiderio di esistere.
I due, assolutamente
dissimili, si osservano, si studiano, si invidiano. Uno è “libero”, l’altro
è “al sicuro”. Ma non è sufficiente.
Il dialogo è essenziale,
tagliente a volte. Non c’è più tempo per il superfluo. Siamo all’ultimo atto
(uno in attesa di un operazione, l’altro pronto per l’ultimo colpo prima di
ritirarsi). In questa pausa che prelude a un cambiamento, in ogni caso, si
riconoscono come parte mancante, che definendosi costringe a un bilancio
della propria esistenza.
Uno all’insaputa
dell’altro, decidono di “sfregiare” il proprio habitus introducendo
una caratteristica dell’opposto (il taglio di capelli, la barba) alla
ricerca di una pienezza che sfugge. La parte oscura di sé è sempre mancata e
ora che finalmente la si è trovata non la si vuole perdere. Così, sentendo
l’altro come parte integrante di se, ci si intromette confidenzialmente
nella sua vita (uno offre un’alternativa non rischiosa, l’altro strappa il
manto dell’ipocrisia).
Non c’è, tuttavia, un
ribaltamento totale e repentino che significherebbe uno sbandamento più che
una trasformazione, come il delinquente che li tradisce, identificazione
malata con l’opposto/giustizia da cui ha solo un tornaconto. Né un
recalcitrare pauroso che inficia la trasformazione, come per la sorella che
resta dolorosamente fratturata.
Pur rimanendo se stessi
ci si rinnova. Si integra la parte mancante un po’ alla volta,
sperimentandola, fino a che la fusione sia completa. Questo credo sia il
senso dell’andirivieni onirico finale.
La parte vecchia muore,
trasformata dal contatto col diverso, deve morire perché la nuova – quella
che integra le due componenti - possa nascere.
Il cavallo di ferro (il
treno) segna il passaggio evolutivo attraverso l’immaginario
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