Il divenire - Il
pulsare della vita
TUTTO O NIENTE
di Mike Leight
(per chi non l'avesse visto : questo commento può contenere elementi chiave e il finale del film)
Il racconto, che per
un lungo tratto espone soltanto gli avvenimenti, è di una monotonia
asfissiante così che è impossibile evitarne il peso. Le parole scambiate
sono suppellettili, lasciate cadere nel niente o lanciate a contundere.
Sembra un lavoro di
cesello. Premessa necessaria alla comprensione.
Una
passiva rassegnazione più che la noia primeggia, anche nelle reazioni
turbolente.
Il lento ritmo
pressante e opaco della solitudine e della miseria viene a sprazzi scomposto
da una rabbia a fior di pelle. La vecchia generazione grava sulla nuova,
reattiva, che si sente soffocare.
La monotonia della
vita viene evidenziata dalla ripetitività della maschera, che ognuno indossa
e che non cattura alcuna simpatia. L’irritazione conseguente (dei giovani in
particolare) non trova sbocco all’insoddisfazione.
Tutti, in qualche
modo, aspettano qualcosa che cambi la loro vita. Un’attesa amorfa.
Il presente è
inesistente, l’idea del futuro assente.
Rompono questa
omogeneità, pur nella disomogeneità dei gruppi (vecchia e nuova
generazione), solo due personaggi.
Fra gli adulti la
commessa stiratrice, l’unica che con sana ironia e accettazione partecipa
alla vita e cerca di assaporarla.
Fra i giovani Rachel,
la figlia dei due protagonisti, silenziosa e quieta, disponibile (tra
l’altro fa un lavoro di assistenza) che sa rifiutare l’altro senza ferirlo
(il collega invadente e inquietante).
Il fatalismo viene
personificato da Phil, che filosofeggia senza convinzione, mentre lo sguardo
resta inquieto, ansioso, disincantato. La sconfitta da Penny, sua moglie,
che accumula meccanicamente delusioni, gli occhi assenti o abbassati.
Entrambi si trascurano soggettivamente (lui è trasandato in ogni senso, lei
indefinita dai tratti quasi adolescenziali) e reciprocamente.
Tuttavia, il primo,
anche se fiaccamente, crede ancora in qualcosa: nell’amore (l’amore è un
rubinetto che perde, un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto … e delle
donne non se ne può fare a meno) sebbene non sia affatto evidente e
non si ponga quesiti. Lei si inacidisce apertamente quando le cose o la
forma le sfugge ancor più di mano, ma resta comunque indeformabile.
Poi all’improvviso
qualcosa accade.
Si apre una possibilità al cambiamento, mentre le
motivazioni che muovono i personaggi cominciano a definirsi.
Irrompe nella vita di
Phil una realtà completamente diversa (la cliente francese), una donna con
caratteristiche assolutamente dissimili dai personaggi consueti. Attiva,
decisa e che ha fatto una scelta drastica (è separata), che vive la
solitudine con altro spirito. Una persona che per di più lo ascolta, anzi si
informa sulla di lui vita.
Questo lo scuote, lo
costringe ad interrogarsi sulla possibilità di entrare in comunicazione,
sull’amore (il proprio e quello della moglie), sulla vita. Si isola, per
riflettere. E infatti poi si esprimerà fino in fondo giocando il tutto per
tutto.
Qualcosa ha spezzato
il tedio e la frattura, emergendo, pone domande.
Contemporaneamente,
ecco.
Al figlio (prodotto
del rapporto fra lui e la moglie) viene un infarto.
Rory è obeso. Il
grasso in eccesso appesantisce il cuore. Ovvero le scorie della relazione
non consentono l’espressione dei sentimenti. E’ costantemente insoddisfatto:
inerte davanti alla televisione (l’impotenza del padre di fronte alla
società e alla vita che scorre come in una finction) o rissoso
(l’aggressività repressa della madre).
La commessa stiratrice è pronta a sorreggerlo, assecondando
le necessità del momento (sostiene o depone il ragazzo seguendo il suo
movimento). Mantiene la coerenza del personaggio, l’unico che cerca di
comunicare veramente. Anello naturale fra passato e futuro (non interferisce
con la vita della figlia ma le si pone a fianco).
La figlia dell’altro tassista, mentre diventa chiaro il
perché dei suoi atteggiamenti: il senso di estraneità e inutilità in cui è
cresciuta, trova una spinta a re-agire costruttivamente, a rendersi conto
dell’importanza della solidarietà come cura al malessere, antidoto a un
anticonformismo (la provocazione erotica in particolare) fine a se stesso,
che può essere distruttivo e che non ha nulla a che spartire con il non
conformismo (che, invece, appartiene a Rachel che quasi fa parte a se
rispetto al contesto generale).
Phil e Penny sono costretti a confrontarsi,
contrapposizione degli opposti, una contro l’altro (la moglie interroga e
accusa e lui per giustificarsi a sua volta).
I sentimenti intervengono (i figli), emergono dalla
confusione abulica. Si esprimono (pacatamente anche Roy, cosa che costringe
la madre ad accettare la verità che lui rappresenta): Rachel, la silenziosa
rassegnazione di lui. Rory la rabbia rimossa di lei.
E quasi un risveglio, storditi, tentano di raggiungersi (Penny:
Mi sento tagliata fuori come fossi sola. E’ strano però. – Phil: Si pure io).
Con imbarazzo impacciato cercano una nuova identità, la
propria. Provano a non trascurarsi, a guardare verso il futuro (nell’ultima
scena all’ospedale sono entrambi più curati, presenti, e la luce si è fatta
luminosa).
Il divenire è, anche se
non si sa dove condurrà :
Rachel - che
nell’operosità/maschile richiama la madre e rappresenta il
sentimento/femminile del padre – si ritira a riflettere, dopo aver
osservato (per tutta la durata del film) attentamente anche se in silenzio,
dopo aver testimoniato il confronto degli opposti da cui ha origine. Poco
trapela direttamente da questo personaggio, che compare per primo sulla
scena e sembra, ma non lo è, marginale. La gestazione del divenire
Post Scriptum:
Mi
sono chiesta perché la prima parte del film risultasse così opprimente e lo
squallore quotidiano così denso. Perché l'unico coinvolgimento fosse la
noia. Gli attori peraltro sono bravi, credibili. Gli accadimenti del
quotidiano scorrono senza particolare ripetitività, mostrando situazioni
diversificate. Credo sia dovuto al fatto (che ritengo intenzionale) che
quanto man mano accade risulta senza storia, quasi a se stante, ne motivo se
non collegato solamente all'immediato. Non provoca emozioni o riflessioni
(quelle si muovono a posteriori se non ci si dimentica del film appena
usciti di sala), se non la speranza che finalmente qualcosa ACCADA per
davvero. La mente osserva, senza alcun rimando. Al punto che il successivo
dramma non tocca intensamente, scuote appena, risveglia l'attenzione che
viene catturata e deviata dalle motivazioni che, finalmente, emergono.
Mi
sono ricordata di altro film che mi aveva affogato nella noia, pur nella
perfezione dell’ambientazione e dell’immagine: Lontano dal Paradiso.
Indigesti entrambi forse per il nodo dolente che toccano: l’incapacità di
vedersi dal di fuori, di comunicare e confrontarsi, di cambiare (nel senso
di Vivere). Entrambi si confrontano con la speranza, il desiderio di
qualcosa di migliore.
Mentre in Tutto o niente la speranza di un rinnovamento è appena accennata,
anche se con una “dichiarazione di intenti”, proprio in chiusura (e lascia
all’immaginario dello spettatore di decidere il seguito). In Lontano dal
Paradiso la speranza è presente, qua e là, e illude lo spettatore per poi
frantumarsi alla fine (l’unico che ha saputo scegliere e costruire la
propria vita, il giardiniere negro, è “costretto” ad andarsene).
Ad
entrambi il merito di mettere in secondo piano il “protagonista” : il
pulsare della vita, tenuto sottochiave in luogo celato, che manca al punto
tale da creare malessere (la noia che altro è?).
LONTANO DAL PARADISO
di Todd Haynes
(per chi non l'avesse visto : questo commento può contenere elementi chiave e il finale del film)
La sensazione di vacuità
di questo film (per quel che ricordo) non credo derivi tanto dal mostrare
uno scorcio di tipica “perfetta” vita borghese, ma più dal fatto che l’anima
soggettiva si mostra appena e comunque, quasi sempre, dietro l’impronta
dell’immagine-ruolo che perde solo un filtro, o al massimo due, ma mantiene
uno spessore ancora solido.
Qui l’apparenza non fa da
sfondo, come in altri film, a un dramma individuale che assume maggior
rilievo, rendendo più netto il contrasto fra la superficialità del bon-ton,
della forma e la psiche soggettiva. Ma impregna i personaggi, anche quando
sono soli o in momenti di confidenza (o che tali dovrebbero essere), che la
difendono anche con(tro) se stessi. Non vengono fatte scelte, ma ci si volge
verso l’unica via che l’impronta culturale lascia possibile.
Tutto resta vacuo, in
superficie, senza storia, estraneo.
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