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Aggregare : dal latino ad, preposizione che indica movimento verso - grex, gregis, gregge, che ha la medesima radice di greggio, cioè non ancora formato.

 

Per cui l’aggregarsi è una soluzione transitoria naturale alla ricerca della propria individualità o specificità.

Generalmente l’obiettivo è rispecchiarsi, confrontarsi per comprendere meglio chi si è. Un obiettivo comune ad ognuno. Non un obiettivo comune da raggiungere, che richiede ideali condivisi.  

 

C’è una sorta di segregazione  (per usare un termine forte), subita o agita, nel senso di essere chiusi fuori o di chiudersi fuori dal resto.  Che dovrebbe svanire con lo sciogliersi del problema, cioè quando viene trovata un’identità soggettiva (sia che riguardi un individuo che un gruppo) che re-immette “dentro”.

Se ciò non avviene entro un termine naturale, significa che qualcosa non funziona a dovere. E può essere una disfunzione individuale o sociale.

 

Una vera comunità permette all’individuo di “sgrezzarsi”, in base a ciò che è e al suo ritmo, riconoscendo ad ogni individuo la sua unicità. Perché è proprio la sua peculiarità la ricchezza che può mettere in comune con gli altri.

Non può, quindi, ritenersi una vera comunità qualsiasi aggregato che non si basi su questo principio.

L’aggregamento omologante è funzionale al potere prevaricante di una parte su altre, che vengono emarginate.

L’emarginazione è un’arma sottile perché, sebbene da un lato possa provocare reazioni anche violente, dall’altro spinge a cercare di tenersene o venirne fuori in qualche modo, anche se apparente (consumismo insegna), per non essere discriminati, cioè diversi, cioè peculiari.

Per non venire “messi al bando” si è costretti a eliminare il proprio senso critico. Perché per quanto si possa restare “immersi” nel proprio essere anche dentro il trambusto del gregge, ci vuole molta fede, cioè crederci veramente e non per assimilazione, per non confondere il senso delle cose.

 

Se il gruppo rispecchia e rispetta le tendenze di ognuno, il che significa riuscire a mettersi anche nei panni dell’altro oggettivamente, e ha a disposizione le capacità di tutti, è possibile orientarsi verso una meta comune che consideri tutti.  Ecco che qualsiasi segnale di disadattamento diventa uno stimolo a mettersi in discussione per comprenderne le motivazioni e valutare se non sia il caso di attuare un (ri)adattamento, se le giustificazioni sono ragionevoli.

Una comunità sana dovrebbe essere in grado di accettare questo tipo di critica, senza sentirsi sminuita e in pericolo. Attingere, anzi, alla disomogeneità creativa(mente), fermento costruttivo di trasformazione.

 

Se l’unione è solo rifugio, un modo per sfuggire alle difficoltà, un identificarsi qui perché altrove non è possibile, si aprirà la strada a una manipolazione, basata sulla paura, in cui attaccamento e possessività primeggeranno, trasformando il mettersi al servizio in servilismo e il mettersi al comando in prevaricazione. Un aggrapparsi testardo a false sicurezze che invaliderà ogni reale trasformazione e, prima o poi, esploderà fragorosamente.

Pacificare non può essere congelarsi, anestetizzarsi, cioè non essere vivi e veri, altrimenti tutto resterà immutato, comunque.

 

Ma anche qui cadiamo nel fraintendimento dell’opposto. Anziché utilizzare due leve se ne usa solo una, mentre l’uso di entrambe sarebbe la soluzione. Mettersi al comando e mettersi al servizio dovrebbero essere le due facce di un’unica moneta, se la comunità è al servizio della comunità e quindi di ogni singolo individuo e viceversa.

I conti devono tornare.

Assistenza significa stare accanto (dal lat. adsistere: ad accanto, presso sistere stare, fermarsi) , con rispetto. Non ha niente a che fare con l’assistenzialismo nella sua accezione più becera, finalizzata a scoraggiare, far vergognare, mettere in stato di inferiorità chi ha bisogno.

 

Dove inizia o termina la comunità?

Sicuramente termina dove inizia la burocrazia, che ha come finalità la propria sopravvivenza (e tralasciamo a chi serve questo) più che servire alla comunità. Dove il potere vuole mettere un marchio su ciò che “possiede”, cioè i cittadini. Le regole dovrebbero venire applicate quando non c’è altra soluzione dettata dal comune buon senso. Non certo per affossare e invalidare la funzione che uno dovrebbe esercitare. Ma se questo qualcuno non è ciò che è, tenderà a immedesimarsi nella funzione pur di essere qualcosa, a usare il potere che la funzione gli da sull’altro anziché svolgerla.

Se l’obiettivo è omologare, cioè non rispettare la verità di ognuno, non c’è via di scampo.

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