Per
riuscire a collegare, comprendere e comunicare c’è bisogno di chiarezza, completezza e
sperimentazione.
E
il bambino, infatti, osserva tutto e tutto tocca, sperimenta e chiede
costantemente. Non si ferma al primo ostacolo, prova e riprova. E’ un
gran osservatore curioso, cioè ha cura
e si preoccupa di collegare tutti gli elementi
per apprendere e comprendere. In un certo senso si informa sulle
possibilità di ottenere ciò che desidera e come. E migliora la
comunicazione per farsi intendere.
E
questo è l’uso proprio del
pensiero.
Ma
se la risposta che riceve è sempre un surrogato, alla fine, penserà
che non c’è altro e si accontenterà di quello che c’è, ma
continuerà a sentire una mancanza senza riuscire a definirla che lascerà
zone oscure dentro di lui.
Accontentarsi
di quello che c’è perché non c’è altro, cioè chiedere altro da
ciò che desidera, non può soddisfare. Il pensiero si distrae, si
contorce e complica. E’ altrove, anch’esso, così che può accadere
che se gli viene inaspettatamente dato ciò che realmente desidera,
resterà confuso, non riuscendo a riconoscere il desiderio originario.
Ha perso la speranza. Pensa che non sia possibile.
Accontentarsi
(dal lat. a: movimento verso – contenere) non può significare
rinunciare a ciò che si vorrebbe contenere. Caso mai rendersi contento
con questo.
L’impulso
viene seppellito sotto scorie di concetti troppo astratti che lasciano
il sentire muto. La curiosità si addormenta o, irrefrenabile, divaga
altrove per trovare vie d’uscita. In un caso, tutto quello che riuscirà
a imparare saranno nozioni e concetti astrusi, senza radici in lui.
Nell’altro, il rischio è quello di riempirsi di concetti
“inanimati”, perché solo razionali o esterni.
Comunque impossibili da trasmettere
ad altri, se non come un replicante, che per quanto dica cose
interessanti addormenta. Perché non c’è pathos in ciò che si
comunica se in qualche modo non lo si contiene.
Si
ripete o pontifica, senza scambio. Il collegamento con l’altro va
perso.
Dal mancato collegamento fra
impulso e sentimento nascono i malintesi. Si presume, anziché sapere,
sovente nel raggiro di una funzione verso l’altra.
Forse
(estremizzando) l’età dei “perché?” nasce proprio da questa
separazione, indotta dall’esterno, che il bambino non comprende e che
gli sembra assurda. Gli si chiedono cose incomprensibili (per esempio di
non essere più integro .. per buona
educazione)
e non gli si forniscono risposte ragionevoli.
Potrebbe
essere molto interessante riuscire ad arrivare alla domanda da cui nasce il “perché?”. Che non sempre è la
curiosità di comprendere come funziona, a cosa serve, come arrivarci
…. Ci sono delle domande
che lasciano a bocca aperta e innervosiscono, persino. Non in quanto
cascano fuori luogo, in momenti inopportuni, anche se così ci diciamo,
bensì perché non ne cogliamo il senso. Ci colgono impreparati e ci
confondo.
Bisognerebbe
fermarsi
a chiedere il perché del perché e vagliarne la risposta, applicando
un’ analisi realmente critica, oltre gli schemi. Se alla domanda, che
parte da un presupposto essenziale per il bambino,
si dà una risposta partendo da altra ipotesi, non potrà che
essere fraintesa e generare confusione.
Non
è che il bambino non sia in grado di recepire. Ha bisogno di attenzione
e di una comunicazione leggera, adatta a lui, ma stimolante e
significativa. Ha bisogno del “Verbo”,
cioè almeno di “sentire” che ciò che gli si dice è “vero“.
Per mettere da parte la domanda con quanto ha accolto della risposta,
che lieviterà in lui, e rispolverarli quando sarà pronto a fare un
altro passo.
Ma
se si passa dalla ovvietà senza senso alla complessità saccente che
appesantisce (ed è in ogni caso insensata), quello che viene trasmesso
e che il bambino recepisce saranno la banalità o la pesantezza, che lo
faranno sentire inadeguato. E, prima o poi, smetterà di fare domande,
cioè si chiuderà.
Resterà
intrappolato da confini che ritiene invalicabili, con cui terrà a bada
lo “straniero” che non riesce a comprendere .. per paura di non
riuscire a comprendere un’altra volta.
Quando
le tre funzioni di base sono state “Iniziate”
si passa all’ “addestramento pratico”, che viene influenzato
- dalla famiglia (mettere
radici). Sia che se ne imiti o rifiuti i modelli
- dall’educazione-scuola (di-mostrare).
che
imprimeranno o meno delle patine (pellicole della cipolla)
sul
bambino, influendo sulle modalità di collegamento
interno e esterno, cioè sulla relazione.
E
le relazioni, in generale, attraverso la trasformazione che implicano,
potranno rafforzare, indebolire o ribaltare queste “pellicole”.
L’altro
potrà essere vissuto come un estraneo da rifiutare. Come uno straniero,
cioè diverso, che incuriosisce e
diverte ma rimane “fuori dalla normalità”. Oppure accettato e
compreso nella sua diversità, che può arricchire la propria.
Quando si
sconfina all’esterno, dal proprio mondo a quello dell’altro, nel
contempo accade all’interno, verso il cuore della cipolla.
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